Giovanni Battista Martini – Azione teatrale

GIOVANNI BATTISTA MARTINI
Azione teatrale
Tactus TC 7701307 World Premiere Recording (2020)

Azione Teatrale

Giacomo Contro, Vincenzo Di Donato, Angela Troilo
Flauto basso: Daniele Salvatore
Viola da gamba: Perikli Pite
Arciliuto: Giovanni Fini
Clavicembalo: Marcello Rossi Corradini

 

Richiami degli ambulanti al mercato di Bologna

 

Coro da camera Euridice

Angela Beghelli, Stefania Cané, Anna Maria D’Avolio, Paola Errore, Anna Gaudenzi Nicoletta Giorgi, Maura Marongiu, Rosanna Odorisio, Maria Angela Onofri, Silvia Pastorino, Rosa Roffi, Chiara Spinaci, Manuela Treré, Angela Troilo, Angelica Trotta, Carla Vanti Paolo Barilli, Sergio Giachini, Rolando Lisi, Jacopo Lenzi, Massimo Pinna, Beppe Tringale, Sergio Turra

Ensemble di Strumenti Antichi Circe

Flauti dolci: Angela Troilo, Sara Dallolio, Stefano Fanton
Violini: Sivia Tecchia, Irene Pizzi
Viola da gamba: Gianni Sebartoli, Silvia Guberti
Violoncello: Federica Pasquali
Arciliuto: Giovanni Fini
Percussioni: Mirco Mungari
Clavicembalo: Marcello Rossi Corradini

Sound engineer, editing: Federico Pelle, Basement Studio, Vicenza; mastering: Federico Pelle e Giuseppe Monari.

Giovan Battista Martini - Azione Teatrale 1726

Il bordone del frate

Era musicista versatile come pochi, quest’umile frà Martini che così voleva esser chiamato nonostante tutti gli onori che gli si tributavano a Bologna e in ogni dove. Celebre oggi come straordinario conservatore di libri, musiche e dipinti, allora era celeberrimo anche come musicista dottissimo, trattatista provetto, storiografo pionieristico, autentico “maestro” di musica. E compositore, certo, ma compositore di che? Di tutto ciò che spettava a un maestro di cappella e organista, ovvero messe, mottetti, salmi, inni, sonate per organo e quant’altro; e anche sonate per cembalo, concerti, cantate, duetti, arie profane.

 

Arie profane: il passo verso il teatro è facile, a questo punto, anche se rimane difficile, nei ranghi di una vita poveramente vissuta sempre a Bologna, in S. Francesco, fra cella e biblioteca, insomma quanto mai scarna di notizie spicciole e quotidiane, conoscere come, dove, quando esattamente padre Giovanni Battista Martini abbia potuto prendere atto e dare prova di dirette esperienze teatrali. Fatto sta che nel suo monte compositivo, tanto ricco e complesso da non godere ancora di un catalogo completo pienamente attendibile, compare anche il teatro, e nemmeno per caso una volta sola; e compare anche una forma di canto popolareggiante come il canone in dialetto. Saranno anche esperienze minori, rispetto alla centralità della grande polifonia sacra, ma non per questo importano poco: sono come delle corde di bordone rispetto al manico e alla tastiera di uno strumento cordofono, aggiunte sì senza utilità no. Sono corde lunghe e grosse quelle, dal suono grave, come basso e “volgare” può essere il tono di queste musiche teatrali e popolareggianti di Padre Martini: esterne, se si vuole, ma non estranee alla sua formidabile figura di musicista totale.

 

Ecco il caso dell’anonima Azione teatrale, lavoro nemmeno degnato di un titolo specifico: ma è un manoscritto, il primo dei cinque testi scenici lasciati dal padre, risalente al 1726 e cioè al ventesimo anno di vita dello stesso, incompleto e non di poco, dalla genesi e cornice biografica impossibile da ricostruirsi; e se l’autore, fatto maturo, avesse avuto volontà oppure occasione di completarlo forse quello che oggi funge da titolo l’avrebbe inteso come una definizione di genere adottando, meglio riadottando il titolo della fonte, la Melissa contenta musicata da Antonio Lotti (o Francesco Gasparini) e rappresentata al S. Cassiano di Venezia nel 1708. Troppo indietro, l’epoca, perché si trattasse di un’opera comica, e troppo ridotto il testo per essere una normale commedia in musica: infatti era un intermezzo, o meglio una piccola serie di intermezzi da inserire fra l’uno e l’altro degli atti di un serissimo dramma per musica. A opera di Lotti o Gasparini a Venezia, forse almeno in parte di loro stessi qualche mese dopo il libretto passò al Teatro Malvezzi di Bologna, per inframmezzare Lo scherno degli dei, un “pasticcio” a più mani musicali su testo di Francesco di Lemene a sua volta pasticciato, si dice, dal Martelli (che piace pensare fosse Pier Jacopo Martello, il coevo letterato e trattatista bolognese espertissimo di teatro).

 

La partiturina è lacunosa: manca circa una metà del basso continuo, per quattro volte i pentagrammi destinati allo strumentale sono vuoti, un’aria di Serpillo è segnalata come imminente dalle seconda di queste parti ma poi non compare. Semplice, tipico, solitissimo l’intreccio (sebben frammentario): il bellimbusto Serpillo (tenore), ex-militare, cede alla corte della vecchia Melissa (basso) per mero interesse materiale, e nonostante nel frattempo lui avvicini e “regali” la giovane e astuta Grilletta (contralto maschile), la cupidigia erotica della donna e la cupidigia economica dell’uomo sono carte sempre vincenti e “lietamente” finali. Stramba l’attribuzione delle voci, e non tanto perché manchino le voci femminili (prassi, com’è noto, allora in uso, e specie nelle terre della Chiesa) quanto perché una parte di donna vecchia è affidata addirittura a un basso e quella della donna giovane a un contralto maschile ovvero musico ovvero castrato: se questa fosse soprano (pur sempre maschile), facilmente la vecchia diventerebbe contralto. Ma no, il giovane Battista così volle, per ragioni non solo comiche: a parte il fatto che usalmente un compositore le voci doveva subirle dalle circostanze, più che cercarle con l’estro della fantasia (troppo lusso), è noto che come la pubertà così la vecchiaia è un fenomeno che tende a confondere l’evidenza sessuale ella persona, così nel colore della voce come nel tratto somatico; e una vecchia squallidetta anzi che no come la bavosa Melissa può essere tanto cattiva e aggressiva da assumere anche nella voce imbarazzanti sembianze maschili, viriloidi, quanto meno asessuate.

 

Né basta: intanto i castrati, alla bisogna, erano bravissimi a vestire panni maschili o femminili, amorosi oppure odiosi, di questa o quell’età; e poi la disponilità canora del fraticello (tale dal 1721, suddiacono il 6 aprile dello stesso 1726, maestro di cappella l’anno seguente) doveva essere davvero limitata. Quello che passava il convento, vien proprio da dire, perché di inserimenti in regolari stagioni d’opera sembra del tutto assurdo parlare. Viceversa, I teatri di Bologna di Corrado Ricci (Bologna, 1888) che danno la notizia delle recite citate del 1708, all’altezza del 1726 saranno spartane, ma sufficientemente chiare: «Nel Carnevale s’ebbero anche le comedie [sic] nel convento di S. Francesco». Commedie recitate, con gli inequivocabili intermezzi di Giambattista Martini cantati (da frati, molto probabilmente).

 

Operoso, versatile, bolognese amante della città donde non s’allontanò mai, ben conscio della modestia delle origini sociali, come poteva padre Martini conciliare quel contrappunto nel quale era maestro con la sua “bolognesità”, con la vita quotidiana, con la frequentazione della gente che girellava per strada, andava e veniva, giocava e mangiava, cantava e rideva (nella migliore delle ipotesi) e intanto non mancava di frequentare la liturgia di S. Francesco? Lasciando stare il latino come lingua e il gregoriano come spunto tematico (cioè tenor da rifornire di cantus, altus e bassus), ogni tanto, e schizzando qualche minuto di canone in dialetto di imitazione o invenzione popolare. Circa ottocento canoni vocali compose, in tutto, un centinaio dei quali appunto in bolognese: fra questi, 26 sono I richiami degli ambulanti al mercato; di questi ultimi, 13 s’ascoltano nella presente raccolta (non per nulla accodati alla comicità dell’Azione teatrale), arricchiti da un gruppo di 12 strumenti e introdotti da un pezzo nuovo, Grida degli ambulanti (elaborato da Pier Paolo Scattolin sulla traccia di alcuni dei seguenti). Col che si amplia ancora il raggio di mente e d’azione dell’austero padre francescano: da autentico storiografo musicale che perlustrava tutte le tradizioni possibili, occidentali e orientali, sacre e profane, dotte o popolari, anche di questo canto popolare e urbano si interessò, orecchiando e svariando, insomma allargando a bella posta locale lo spazio che si doveva ritagliare nell’ambito della futura, effettivamente molto futura etnomusicologia.  

 

Chiari certi caratteri generali dei canoni in bolognese: sono pezzi spesso non veloci, cui la ripetizione del testo e della musica conferisce un certo tono di nenia o cantilena, con effetti di eco, dal disegno ritmico-melodico così semplice da sembrare l’intonazione del testo più spiccia possibile; e molto bene figurano in un’interpretazione come questa che li avvolge in un assieme strumentale leggero ma diverso, variopinto, esteso dal flauto all’arciliuto, particolarmente generoso con le percussioni (sempre praticate, si sa, e anticamente mai scritte). Dunque Cessi bianchi procede indifferente alla disinvoltura del testo, monotono, come un qualcosa di cantato continuamente, decine e decine di volte al giorno; e Ces ces chi vol dal ces, insistendo in quel tono di sermo cotidianus, esibisce anche un che di stanco, automatico, in fondo tipico della relativa modalità popolare. Azzeccato l’inserimento delle percussioni, anche in Chi vol di curb, dove il moto è più svelto e la linea più vocalizzata. Addirittura ossessivo diventa il grido in Clur clur, che fra l’altro chiude di botto, come interrotto per autosfinimento. Qualche gioco di eco si sente in Di luvin dulz, maggiore acutezza in Frittolin raviolin, un ritmo più scandito in L’esca bona, un vago effetto di lontananza in Mela cotta, più allegria del solito in Pess pess, uno squillante metro anapestico (breve-breve-lunga) in Sulfanar donn’ col suo bel motto finale, un analogo metro anapestico in Zaletti e castagnaz (dove la prima parola in musica diventa za-a-lètti).

 

Quanto ai Cappellett’ martuff, perché saranno vuoti, questi gustosi rappresentanti della miglior cucina emiliana e succulenti concorrenti dei tortellini? Forse per lasciarli riempire ai compratori, con il ripieno di carne e formaggio che vorranno (o, piuttosto, vorranno le loro tasche). Bassettino il livello di questo riferimento, ma il riferimento possibile a I balbujen cald’e grus (“Le castagne lesse calde e grosse”, o forse meglio “Le balle/palle bollenti calde e grosse”) è tale da rialzare le sorti dell’assieme: perché fu ricordando, a Parma, certi venditori di pere cotte gridanti Boiènt i pèr còtt, boièèènt!, che Giuseppe Verdi trovò l’ispirazione melodica per un famoso e bell’esotico coro della sua Aida, “O tu che sei d’Osiride / madre immortale e sposa”. [Piero Mioli]

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